Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale è previsto dall’art. 341-bis c.p., che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni.
Ai fini dell’integrazione di tale reato, devono concretamente ricorrere i seguenti elementi: l’offesa deve avvenire in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; alla condotta deve conseguire un nocumento all’onore e al prestigio del pubblico ufficiale; l’offesa dev’essere arrecata mentre quest’ultimo sta esercitando le proprie funzioni.
La norma incriminatrice mira a tutelare l’onore e il decoro del pubblico ufficiale e, per tale tramite, il prestigio della Pubblica Amministrazione di cui l’offeso è organo: infatti, come ha evidenziato la Corte di cassazione (n. 15367/2014), l’art. 341-bis c.p. «incrimina comportamenti ritenuti pregiudizievoli del bene protetto, a condizione della diffusione della percezione dell’offesa, del collegamento temporale e finalistico con l’esercizio della potestà pubblica e della possibile interferenza perturbatrice col suo espletamento».
La natura plurioffensiva del delitto in esame emerge altresì dal terzo comma della norma incriminatrice, che prevede che il reato si estingua qualora l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima. Come si vede, dunque, a essere tutelati non sono solo l’onore e la reputazione della persona fisica destinataria delle frasi denigratorie, ma anche il prestigio della Pubblica Amministrazione che per il tramite di quella persona fisica agisce: se così non fosse, non si potrebbe intendere come mai il terzo comma dell’art. 341-bis c.p. subordini l’estinzione del reato al risarcimento del danno da prestarsi nei confronti tanto del pubblico ufficiale quanto dell’ente di appartenenza dello stesso.
Con riferimento a tale causa estintiva, v’è innanzitutto da rilevare come esista un contrasto tra la giurisprudenza di merito e quella di legittimità in ordine all’individuazione del momento ultimo in cui la condotta riparatoria, per essere considerata tempestiva, deve avere luogo.
Secondo alcune decisioni di merito, infatti, l’effetto estintivo può conseguire anche a una condotta tenuta dall’imputato nel corso del dibattimento; la Cassazione, invece, appare costante nell’affermare che il risarcimento deve intervenire prima dell’apertura del dibattimento.
Con tale orientamento, che valorizza la locuzione normativa «prima del giudizio», la giurisprudenza di legittimità mira a evitare che l’estinzione del reato possa conseguire a comportamenti opportunistici dell’imputato, che decida di riparare il danno solo dopo che le circostanze emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale rendano evidente la sua responsabilità: da quanto detto si evince che la causa estintiva de qua mira altresì a deflazionare i carichi processuali, inducendo l’imputato a riparare il danno prima del dibattimento, così da evitarne la celebrazione.
Con riferimento all’entità della condotta riparatoria, viene talvolta riconosciuta efficacia estintiva anche a condotte aventi un contenuto non patrimoniale, purché esse siano rivelatrici dell’effettiva resipiscenza dell’imputato.
Si è espressa in questi termini un’interessante pronuncia del Tribunale di Agrigento (n. 1648/2018), che ha dichiarato l’estinzione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale in un caso in cui l’imputato, che aveva ingiuriato due Carabinieri mentre compivano un atto del loro ufficio, aveva offerto la somma simbolica di 30 euro all’Arma dei Carabinieri, accompagnando il pagamento con una pubblica lettera di scuse.
Nel riconoscere efficacia estintiva a tale condotta, il Tribunale, tenendo conto anche delle condizioni economiche in cui versavano l’imputato e gli altri componenti del suo nucleo familiare, ha affermato che la riparazione di cui discorre l’art. 341-bis, c. 3, c.p. ben può consistere in un risarcimento simbolico, purché allo stesso si accompagni una condotta riparatoria di ordine morale da cui sia dato desumere la resipiscenza dell’imputato.
Un’ulteriore questione relativa alla causa estintiva in esame è quella attinente ai rapporti tra quest’ultima e la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.
Sul punto, la Cassazione (n. 44627/2019) ha statuito che la declaratoria di estinzione del reato ex art. 341-bis, c. 3, c.p. dispiega effetti più favorevoli per l’imputato rispetto a quelli che conseguono all’applicazione dell’art. 131-bis c.p.: infatti, la sentenza dichiarativa della causa di non punibilità presuppone l’accertamento dell’avvenuta commissione di un fatto costituente reato e a essa consegue l’annotazione della decisione nel certificato del casellario giudiziale; tale annotazione potrebbe precludere all’imputato la possibilità di usufruire nuovamente dell’art. 131-bis c.p., dal momento che tale norma presuppone la non abitualità della condotta.
Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha riconosciuto l’interesse dell’imputato, anche qualora siano integrati gli estremi per una declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a insistere per il riconoscimento della causa estintiva di cui all’art. 341-bis, c. 3, c.p., stanti i più favorevoli effetti da essa dispiegati.