Omesso versamento iva: tendenziale irrilevanza della situazione di difficoltà economica e particolare tenuità del fatto

Il reato di omesso versamento dell’IVA è previsto dall’art. 10-ter d.lgs. 74/2000, che punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250.000 € per ciascun periodo d’imposta.

Come recentemente evidenziato dalla Corte di Cassazione, trattasi di «reato omissivo proprio che si consuma al momento della scadenza prevista dalla legge (termine per il versamento dell’acconto per l’anno successivo) sulla base della dichiarazione Iva. L’imputato, al momento della scadenza del termine per compiere il versamento […], era il legale rappresentante della società in questione, circostanza questa non contestata, né è contestato che egli avesse predisposto e sottoscritto la dichiarazione che esponeva il debito Iva»: nella vicenda decisa dalla citata sentenza, la responsabilità dell’amministratore della società è stata fondata sulla circostanza che egli, proprio in ragione della carica ricoperta, era al momento della scadenza del termine per il versamento «il soggetto su cui grava l’obbligazione tributaria la cui omissione integra il reato contestato». 

Così chiarita l’appartenenza degli amministratori di società al novero dei possibili soggetti attivi del reato, appare ora opportuno analizzare a quali condizioni lo stesso possa dirsi integrato.

È in primo luogo necessario l’inadempimento da parte del destinatario dell’obbligazione tributaria. Esso, tuttavia, non è di per sé sufficiente, dovendo essere corredato da ulteriori elementi, in particolare: i) il debitore deve aver presentato, entro i termini di legge, una dichiarazione annuale da cui emerga un debito IVA; ii) l’IVA a debito dichiarata e non versata deve superare i duecentocinquantamila euro per periodo d’imposta; iii) l’omissione dev’essersi protratta fino al termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo (ossia fino al 27/12 dell’anno successivo a quello cui si riferisce il debito IVA; iv) deve sussistere, in capo al soggetto agente, il dolo generico, inteso come coscienza e volontà di porre in essere il mancato versamento.

A quest’ultimo proposito, è opportuno segnalare che, diversamente dal passato, non è più richiesto il dolo specifico, vale a dire la volontà di evadere l’imposta, il che  induce a interrogarsi sulla rilevanza che assume la condotta del soggetto la cui omissione sia direttamente imputabile ad uno stato di dissesto, ossia di oggettiva impossibilità di provvedere al versamento: ci si chiede, in altri termini, se una simile situazione possa escludere la sussistenza del reato.

Secondo la giurisprudenza, l’impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria non esclude automaticamente la responsabilità penale del contribuente. Quest’ultima, infatti, viene ritenuta sussistente quando l’impossibilità dell’adempimento è una prevedibile conseguenza di un comportamento imprudente, che viene dalla giurisprudenza ritenuto sintomatico dell’accettazione del rischio dell’inadempimento da parte del contribuente.

A questa conclusione i giudici sono soliti pervenire quando l’imputato non ha versato l’imposta alle scadenze periodiche e non ha creato riserve per far fronte a crisi di liquidità, sottovalutando l’eventualità di una crisi o sopravvalutando la propria capacità di evitarla. Ancora, viene ritenuto sintomatico del dolo (eventuale) il comportamento dell’imputato che ha utilizzato l’IVA incassata come forma di autofinanziamento, anziché versarla o accantonarla. Alle stesse conclusioni si perviene qualora l’imputato, anziché ripartire le risorse disponibili in considerazione anche del debito tributario, abbia corrisposto per intero i compensi spettanti ai lavoratori. 

Ne consegue pertanto che l’aver agito all’esclusivo fine di assicurare la sopravvivenza dell’impresa, trascurando le pretese erariali, impedisce all’imputato di invocare a propria difesa l’oggettiva impossibilità di adempiere alle obbligazioni tributarie, specie quando tale impossibilità sia stata preceduta da operazioni commerciali e scelte gestionali avventate e imprudenti.

Appare infine opportuno spendere due parole in ordine ai rapporti tra la soglia di punibilità fissata dalla norma incriminatrice (euro 250.000 per ciascun periodo d’imposta) e l’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.

Tale questione è stata oggetto di una recente pronuncia della Suprema Corte, che ha affermato che la presenza, nella norma incriminatrice, di una soglia numerica non è di per sé incompatibile con l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. Più precisamente, la Cassazione ha statuito che, in presenza di un superamento marginale (nel caso di specie trattavasi di un’eccedenza rispetto alla soglia di punibilità pari a euro 21.963,00, ossia inferiore al 10%) ed episodico, nulla osta al riconoscimento dell’operatività dell’istituto della particolare tenuità del fatto.

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