Presunzioni tributarie e processo penale

Il tema dei rapporti tra processo tributario e processo penale è stato negli anni oggetto di un vasto dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nonché di diversi interventi normativi che si sono succeduti a far data dal 1929 e che hanno alternativamente riconosciuto la prevalenza ora del processo penale (vincolando il giudice tributario ai relativi esiti), ora di quello tributario (vincolando il giudice penale ai relativi esiti).

Tra le cause delle suddette vicende spicca certamente la radicale diversità dei sistemi probatori che connotano le due sedi processuali. Infatti, il processo tributario è caratterizzato dal divieto di assumere prove testimoniali (che, invece, costituiscono la “prova regina” nel processo penale), nonché dalla possibilità di fondare la sentenza su presunzioni che, essendo prive dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza richiesti dall’art. 192, c. 2, c.p.p., sarebbero inidonee a supportare una decisione penale di condanna. Quest’ultima, infatti, in ossequio al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, c. 2, Cost., può essere pronunciata solo qualora gli elementi raccolti consentano di ritenere provata la penale responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio: una regola di giudizio altrettanto rigida non è invece prevista nel processo tributario.

Da ciò deriva la possibilità di contrasti tra quanto statuito nelle due sedi processuali: può dunque accadere che le commissioni tributarie ritengano sussistente la pretesa dell’Erario e che, al contrario, il giudice penale assolva il contribuente dal reato tributario ascrittogli, non ritenendo sufficienti gli elementi posti a fondamento della decisione emessa nell’altra sede processuale.

Quanto detto, tuttavia, non significa che le presunzioni tributarie siano del tutto irrilevanti in sede penale, dovendosi operare una netta distinzione tra la fase cautelare e quella del giudizio. Si è recentemente espressa in tal senso la Corte di cassazione (n. 36302/2019), che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un soggetto (indagato per il delitto di omessa dichiarazione ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000) che lamentava che il sequestro preventivo disposto nei suoi confronti fosse fondato su presunzioni tributarie prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192, c. 2, c.p.p.

Nel decidere il ricorso, la Suprema Corte ha innanzitutto chiarito che presupposti del sequestro preventivo (misura cautelare reale prevista dall’art. 321 c.p.p.) sono gli indizi del reato e il periculum in mora (inteso come pericolo che la libera disponibilità delle cose sequestrate possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di ulteriori reati).

Ebbene, ad avviso della Corte, la sussistenza degli indizi del reato ben può essere desunta dalle presunzioni tributarie, che nel caso di specie erano state valorizzate al fine di verificare l’avvenuto superamento della soglia di punibilità (pari a euro cinquantamila) prevista dalla norma incriminatrice. A ciò non osta il fatto che simili presunzioni non siano gravi, precise e concordanti e comportino un’inversione dell’onere della prova a carico del prevenuto: simili considerazioni, infatti, impediscono unicamente di porle a fondamento di una statuizione di condanna, ma non di valorizzarle quali elementi rivelatori di quegli indizi del reato che sono sufficienti ai fini dell’adozione della misura cautelare reale del sequestro preventivo.

Quanto detto, ovviamente, non significa che, ogniqualvolta l’Amministrazione tributaria si sia servita di presunzioni, ciò comporti automaticamente l’applicazione della misura de qua, ben potendo l’interessato invocare (e allegare) in sede penale elementi che paralizzino e superino il rilievo indiziario delle presunzioni medesime.

La sentenza che si è sopra richiamata ha affrontato anche tale questione, affermando che non è comunque sufficiente a evitare l’applicazione del sequestro preventivo la mera giustapposizione di elementi che, pur essendo di segno contrario rispetto agli indizi accusatori emergenti dalle presunzioni, non siano tuttavia in grado di privarli dell’attitudine a ricondurre il fatto storico nell’ambito della fattispecie di reato contestata: è pertanto necessario che gli elementi evidenziati dalla difesa elidano completamente quelli invocati dall’accusa, privandoli della loro portata indiziaria.

È precisamente in ciò che si sostanzia la differenza, più volte evidenziata dalla pronuncia in commento, tra la fase cautelare e quella del giudizio. 

In quest’ultima, infatti, è sufficiente, ai fini dell’assoluzione, che gli elementi emersi a favore dell’imputato, pur non elidendo la portata indiziaria degli elementi di segno opposto, facciano sorgere quel ragionevole dubbio a cui deve necessariamente seguire la pronuncia di una decisione di tenore assolutorio: in questi casi, infatti, gli elementi a sostegno dell’accusa risultano privi dei caratteri della gravità, precisione e concordanza e, dunque, sono inidonei a fondare una statuizione di penale responsabilità. 

L’adozione del sequestro preventivo, invece, può avere un fondamento meno solido, trattandosi pur sempre di misura cautelare (e non di pena) che non limita la libertà personale del prevenuto, ma pone un vincolo di indisponibilità su alcuni suoi beni: questo spiega come mai tale misura possa essere adottata anche in presenza di indizi privi dei requisiti di cui all’art. 192, c. 2, c.p.p., sempre che l’interessato non sia in grado di allegare fatti e circostanze che eliminino radicalmente la natura indiziaria degli elementi a suo carico. Qualora, invece, tale natura non risulti elisa, ma solo attenuata, il sequestro preventivo potrà legittimamente essere disposto.

Related Posts

Calendario Corsi Live

Nessun evento trovato!

Archivio